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Giotto: quando l’arte incontrò la modernità.

Scritto da Michele Spissu

25 Gennaio 2021

Il grande Giotto, l’illustre Giotto, quello rappresentato al fianco di Dante e Petrarca negli affreschi dell’ex monastero francescano di Montefalco, oggi potrebbe deluderci: entrando nella Basilica di Assisi o nella Cappella degli Scrovegni a Padova, guardando quelle figure ancora imperfette rispetto alla vetta rinascimentale, potrebbe capitare di chiedersi “Ma cosa ci trovano in lui?”.

La verità è che, come scrisse lo stesso Vasari, dietro quell’apparente mediocrità: “si scoprono gli affetti e le attitudini”. In un mondo che non conosce altro, oltre alla fredda, idealistica, bidimensionale, arte bizantina, Giotto è il primo che osa dipingere il reale, che scopre il vero anatomico, le luci e le ombre, i colori.
Nella stessa epoca, se da una parte Dante crea la lingua letteraria, dall’altra Giotto crea la lingua figurativa d’Italia: non è una semplice rivoluzione tecnica  (anche se certamente l’arte viene trasformata persino in questo senso, con la prospettiva intuitiva), ma una rivoluzione concettuale. Per la prima volta, compaiono i denti e le lacrime, compaiono le espressioni sui volti degli uomini rappresentati; finalmente le figure sono messe in relazione fra loro: non più individualità separate, ma soggetti che si guardano e interagiscono. Lo stesso Cristo, prima rappresentato trionfante sulla croce, diviene uomo a tutti gli effetti: ora soffre con il capo chino e anche il suo sangue è rosso, come quello degli uomini, non più etereo, trasparente.
L’arte di Giotto nella sostanza spinge poderosamente verso l’Umanesimo, è il presupposto del nostro Rinascimento e fino ad allora nessuno sarà capace di superare la sua arte. L’innovazione che egli ci presenta è totale, surclassa il passato a trecentosessanta gradi. Prendiamo in considerazione gli angeli carichi di austerità, carichi di stoffe, con le ali policromatiche e privi di qualsiasi espressione, sostanzialmente le guardie pretoriane dell’Altissimo: Giotto dona loro il candore che tutt’oggi li rappresenta; non più i carabinieri di Dio, ma la Sua Epifania, l’intelligenza divina, il ponte fra gli uomini e il proprio creatore.
Ma forse il suo più grande azzardo fu la negazione del pudore bizantino, maggiormente evidente nel Giudizio Universale della Cappella Scrovegni, dove l’inespressività viene del tutto ribaltata nel bene e nel male: ci viene infatti presentato l’inferno nella sua crudezza, con peccatori non solo arsi fra le fiamme, ma impiccati per la lingua o appesi per il proprio pene.  Un’opera che è il presupposto del Giudizio Universale michelangiolesco, e se consideriamo che quest’ultimo fece scalpore per la sua crudezza nel ‘500, ci rendiamo conto di quanto innovativa fosse l’arte di Giotto. Ecco perché, a quasi settecento anni dalla sua morte, Giotto ancora vive attraverso la sua rivoluzione artistica: ecco che nella realtà quell’apparente mediocrità si mostra in tutta la sua sfolgorante grandezza.

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